Salvini vs Giorgetti, Lega vs Forza Italia: la sconfitta di Trump fa male alla destra italiana

La mascherina da cheerleader del trumpismo non ha giovato al Capitano. Berlusconi, da statista, guarda avanti: “Ho fatto gli auguri a Biden…”. Meloni in transizione politica

La sconfitta di Trump rischia seriamente di derubricare il sovranismo a malattia infantile del centrodestra di governo. Una forma virulenta non di politica bensì di atteggiamento, trattata alla stregua di manifestazioni psicologiche quali il ribellismo, il narcisismo, il bullismo, il negazionismo, il machismo.

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Sia chiaro: il trumpismo – con la sua base di rabbia sociale, spaesamento, esaltazione della razza, paura del diverso, distanza tra centro e periferie – non è stato una parentesi e non finirà certo con l’uscita del presidente in carica dalla Casa Bianca. Eppure, il paradosso è enorme, come ha notato subito Enrico Letta: “Trump ha creato un immaginario, dopo Kennedy è forse il presidente Usa che ha maggiori seguaci fuori dal suo Paese. C’è gente che ha in casa la sua foto come quella del Che”. Contemporaneamente però è “il primo presidente uscente che perde la rielezione da 28 anni, l’ultimo fu Bush contro Clinton”.

E’ tutto qui il cortocircuito. La capacità di fare campagna elettorale non implica automaticamente quella di governare. I supporter di un partito non fanno la classe dirigente del medesimo. La claque è ottima per applaudire meno per indirizzare. Le fake news propalate dall’account ufficiale “Potus” fanno il loro effetto raggiungendo milioni di persone, ma l’immagine dello “zio matto che retwitta qualsiasi cosa” non coincide con quella del comandante in capo degli Usa. E alla fine, il conto arriva: durante la notte elettorale i media americani (compresa la Fox, per ordine diretto di Rupert Murdoch) hanno staccato i microfoni al presidente uscente che, dopo essersi preventivamente smarcato dal rispetto del risultato, stava accusando di frode il presidente eletto senza non una prova ma neppure un indizio. Quando, in sintesi, il terreno non era più quello della libertà di parola, che in America è sacra, bensì quello che lambisce l’eversione istituzionale, con cui oltre Oceano non si scherza. E dunque, bye bye Mister President. Ed è con questo quadro che stanno già facendo i conti i partiti di destra del mondo, Italia compresa. Rimasti orfani di un’icona prima ancora che di una (potente) sponda. Silvio Berlusconi, cui non difetta l’istinto della politica, ha pronunciato il requiem più centrato: “Trump ha pagato la sua arroganza. Non l’ho sentito, ma ho fatto gli auguri di buon governo a Biden. Gli Usa sono divisi ma lui deve essere il presidente di tutti”. Del resto, mentre Donald ha appena licenziato il quarto capo del Pentagono di fila, è noto che il Cavaliere non abbia mai (apertamente) licenziato nessuno. Meglio logorare gli altri finché si assumono la responsabilità dello strappo. La Forza Italia di oggi, però, fa poco sforzo ad ammainare la bandiera del tycoon che pure tanti hanno paragonato a Silvio: è un partito dell’8%, dialogante con il governo di Giuseppe Conte, critico con i sovranisti, e che a differenza loro vorrebbe i soldi del Mes. Molto più complicata la questione nella Lega, dove la sferzante definizione dell’”Independent” su Matteo Salvini “cheerleader di Trump” colpisce nel vivo. La prima intervista dopo il voto del 3 novembre è di Giancarlo Giorgetti, numero due del partito, responsabile Esteri, atlantista e tessitore dei (finora scarsi) rapporti europei del Capitano. E parla chiarissimo: “Siamo assolutamente interessati a dialogare con l’Amministrazione Biden. E’ importante farlo se vogliamo davvero andare al governo in Italia”. Poi, certo, parole dolci per Donald, ma “per noi non cambia nulla, restiamo fermi nella collocazione atlantica”.

Inusuale silenzio, invece, per Salvini, che alla vigilia dell’election day si era fatto fotografare con la mascherina della campagna elettorale trumpiana e che non ha mai nascosto le sue simpatie. E dunque, spaccatura profonda o tattica del poliziotto buono e di quello cattivo? Negli ambienti del Carroccio si accreditano entrambe le versioni. “Non per nulla Giancarlo è sulla cresta del potere, quello vero dietro le quinte, da vent’anni” ridacchia un senatore. Insomma: è vero che il mondo di riferimento di Giorgetti è più ampio e non sempre coincidente con quello del leader. E’ altrettanto vero che lui a Matteo gliel’ha detto in faccia: rimanere aggregati al carro di Marine Le Pen al Parlamento di Strasburgo è una strategia perdente. E pure Trump, rischia di tramutarsi in patata bollente. Non a caso, gli uomini (e le donne) più vicini a Trump gli stanno consigliando cautela sulle modalità con cui condurre la battaglia legale per contestare l’esito elettorale e sulla gestione della “transition”, cruciale per gli americani. In gioco non c’è più solo la sua (controversa) reputazione: c’è l’eredità politica del partito Repubblicano che sicuramente Trump in quattro anni ha plasmato, ma che gli preesisteva e intende succedergli.In realtà, il vero termometro dello stato di salute del sovranismo italiano è considerato – non da oggi – il comportamento di Giorgia Meloni. Che, in modo un po’ defilato, studia la sua personale “transizione”: poche interviste, critiche al governo ma non cannoneggiamenti (ad esempio, sulla vicenda del terrorista di Nizza sbarcato a Lampedusa, Salvini ha chiesto le dimissioni dal Viminale della Lamorgese, Meloni si è limitata alla richiesta di chiarimenti in sede parlamentare). In Europa, mentre l’ex vicepremier dall’orecchio di un passaggio nel Ppe non ci sente e progetta un giro dei governi dell’Ue (chissà se il primo sarà l’Ungheria di Orban), Meloni è diventata presidente del gruppo euroscettico dei Conservatori e Riformisti. E’ lei ad avere rapporti più solidi e strutturati con il Gop americano (ha tenuto un discorso alla loro kermesse l’anno scorso) mentre la trasferta salviniana a Washington nel 2019 fu un mezzo flop. Adesso la leader di FdI argomenta: “Il de profundis per il sovranismo è prematuro, siamo vivi e vegeti. Mica metà degli elettori americani è fatta tutta di omofobi, ignoranti, suprematisti bianchi”. Tuttavia precisa: “Non mi piacciono le etichette.

Condivido con Trump idee e valori, ma non faccio la cheerleader di nessuno”. Touché.Se sia vera gloria – e vera distanza tra i due alleati – è presto per dirlo. In mezzo ci sono, come minimo, i prossimi tre mesi. Per capire come finirà la “transition” alla Casa Bianca. E chi avrà in mano il Senato. Una lezione, però, a destra è già chiara: in campagna elettorale si può avere la lingua lunga, quando si governa bisogna (certe volte) mordersela. Un packaging scintillante può convincere all’acquisto, ma poi il pacchetto si scarta e bisogna valutare quello che c’è dentro. Il “divide et impera” funzionava ai tempi di Giulio Cesare, ma mostra la corda nell’era del multilateralismo. Una poderosa macchina mediatica e tanti soldi giovano al candidato, ma all’eletto servono qualità più sottili. Il quid, direbbe Berlusconi. Ad agosto 2019 sui social circolava questa battuta: “Papà, ma davvero Salvini non ha fatto nemmeno una cosa buona al governo?”, “Ma certo che l’ha fatta, figliolo: si è mandato a casa da solo”. Dopo la Brexit, Nigel Farage ha giocato così male le sue carte da finire nell’anticamera del dimenticatoio. Adesso, dopo un giro di giostra, gli americani hanno mandato “lo zio matto” ai giardinetti. E nessuno vuole essere il prossimo.

Fonte: Huffingtonpost

Link: https://www.huffingtonpost.it/entry/salvini-vs-giorgetti-lega-vs-forza-italia-la-sconfitta-di-trump-fa-male-alla-destra-italiana_it_5faaa7dfc5b66009569e937c

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