Giuliano da Empoli: “Covid è solo un acceleratore. L’Italia è già fuori dall’Europa”

Il saggista e presidente del centro studi Volta commenta col “pessimismo della ragione” i dati Istat che vedono un aumento delle diseguaglianze e un’ascensore sociale che va verso il basso

“Questo del Covid è l’ultimo choc che l’Italia può utilizzare per svegliarsi e, per esempio, mettere da parte il populismo. Bisogna invertire la rotta, recuperare la divergenza o al prossimo choc il Paese si ritroverà fuori dall’Europa”. Perché “se l’‘Italexit’ ancora non si è prodotta sul piano economico, su quello politico e socioculturale esiste già, Recovery plan o meno”. Giuliano da Empoli non è sorpreso, ma preoccupato sì. 

L’ultimo rapporto dell’Istat fotografa una situazione poco incoraggiante e il saggista, già consigliere politico di Matteo Renzi e presidente del centro studi “Volta” – che ha 46 anni e dunque rientra nella generazione (1972-1986) per cui da noi l’ascensore è diventato “mobile” verso il basso – non nasconde che la sua “preoccupazione principale è che neanche una scossa così pesante sia stata sufficiente a imprimere una svolta nel cammino intrapreso dall’Italia prima che arrivasse il coronavirus”, spiega rispondendo ad HuffPost da Parigi, dove vive. Vista dalla Francia, quella che definisce “la divergenza dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei” deve essere ancora più evidente. Una tendenza che, fa notare il saggista, molto ha a che fare col populismo e che l’emergenza sanitaria e sociale ed economica causata dal Covid-19 ha accentuato. Come ha evidenziato l’Istat.

Il rapporto annuale racconta un Paese ancora più impoverito dal Covid, in cui le diseguaglianze si sono accentuate, l’ascensore sociale va verso il basso. È sorpreso, da Empoli?

Purtroppo no. La crisi del virus può essere considerata un acceleratore di transizione che rafforza tendenze già esistenti in Italia, a tutti i livelli. Veniamo da vent’anni di crescita sostanzialmente zero, con l’ascensore sociale largamente bloccato e con diseguaglianze molto importanti. Non credo nelle analisi troppo sofisticate, Houellebecq ha detto l’essenziale: che quello dopo il Covid sarà un mondo uguale a prima, ma un po’ peggio. Quei dati ci stanno dicendo questo.

Il 26,6 % dei nati tra il 1972 e il 1986 rischia un “downgrade” rispetto ai genitori, il mercato del lavoro si restringe per le fasce più deboli, giovani e donne. 

Tuttesituazioni già presenti, accresciute a dismisura dal Covid. Mi preoccupa molto il fatto che sia stato colpito pesantemente il tessuto più vitale dell’economia italiana, ossia le piccole e medie imprese, l’iniziativa individuale dal basso. Una ferita che non potrà essere sanata dai fondi europei calati dal cielo e storicamente in Italia sempre impiegati male, tradotti in vettori di sviluppo sempre con difficoltà”.

Nel report Istat si mettono in evidenza due aspetti positivi: la coesione sociale emersa durante il lockdown e il ruolo della famiglia, che resta il rifugio per eccellenza. Ma se prosegue la corsa verso il basso del Paese, non corre il rischio di disgregarsi anch’essa?

Anche le famiglie si stanno impoverendo. Rispetto a quanto avviene in altri Paesi europei, in Italia la tenuta della famiglia – anche se per certi versi contribuisce a perpetrare alcune storture del sistema – resta una salvaguardia forte”.

Ha parlato degli altri Paesi europei. Nel post Covid il gap che li separa dall’Italia è ancora più ampio? 

Ledivergenze economiche, sociali e politiche si fanno sempre più marcate. L’Italia sta passando dallo stato di laboratorio politico, che anticipava tendenze destinate a diffondersi altrove, a quello di scheggia impazzita, che rischia di andare in una direzione completamente diversa dagli altri. Le avvisaglie si colgono su tutti i fronti.

In che senso?

Alla ricaduta della crisi sul tessuto più vitale dell’economia vanno aggiunti un sostanziale disinteresse per il supporto a scuola e cultura, una sfera pubblica sempre più degradata e una partecipazione al progetto europeo in calo, già emersa alle ultime elezioni Europee. Da noi sono cresciute le forze anti europeiste, da un sondaggio recente è emerso che oggi l’Italia considera amici Cina e Russia e nemici Francia e Germania. Divergenze che rischiano di portare il Paese su una traiettoria diversa.

Questa traiettoria conduce a quella che lei nel suo ultimo libro (Gli ingegneri del caos, Marsilio) definisce l’Internazionale populista?

Il denominatore è il nazional-populismo, sì, che emerge con molta evidenza anche dal dibattito italiano, surreale, sui fondi del Mes. Concentrato sulle previsioni dei tempi e delle modalità di arrivo di questa novella “manna dal cielo” e condotto in termini del tutto ideologici e fuori dalla realtà delle cose”.

Il populismo non è un problema solo italiano. Come affrontarlo da noi?

Il nazional-populismo è una tendenza globale, ma altrove esistono anticorpi più forti che in molti paesi europei lo stanno facendo arretrare. Da noi invece, sulla base dei sondaggi, oggi tre dei quattro principali partiti (Lega, M5S e Fratelli d’Italia) sono nazional-populisti. Per questo dico che non siamo più un laboratorio politico, ma rischiamo di diventare una scheggia impazzita. 

Torniamo ai dati Istat: nel report si sottolinea il livello di scolarizzazione dell’Italia, tra i più bassi dell’Unione europea. 

Non credo esista un altro Paese in Europa in cui è accaduto quello che è successo in Italia, dove non solo la scuola non è stata ancora riaperta, ma non sono stati indicati termini e regole precise per la ripartenza, anche nell’ottica di ridurre le diseguaglianze.

Acuite – anche questo certificato dall’Istat – pure dalla didattica a distanza, che poteva invece essere strumento e opportunità di sviluppo.

Senza dubbio. In Italia ci sono mille interstizi dinamici capaci di trasformare la crisi in opportunità, ma c’è un sistema cui questa capacità complessivamente manca. Così il dinamismo si perde.

Cresce il numero dei figli che hanno una condizione economica inferiore a quella dei genitori, le previsioni sulla natalità sono drammatiche. Venticinque anni fa, lei, a proposito di giovani e crisi italiana, scrisse “Un grande futuro dietro di noi”. Un quarto di secolo dopo è ancora così?

È peggio. Quel titolo non era una profezia, descriveva tendenze già allora evidenti, che si sono rafforzate e senza alcuna inversione di marcia.

E allora ai giovani italiani di oggi diciamo, con Eduardo, “Fuitevenne”?

La diaspora dei giovani è una parte del problema che vive oggi il Paese. È una scelta individuale legittima, magari per una fase, ma non può essere una strada a senso unico.

Lei vede una via d’uscita? Come si fa a invertire la rotta?

Lo choc violentissimo con cui si è confrontata l’Italia ha evidenziato anche elementi positivi, penso alla coesione sociale e al senso di responsabilità civile. Bisogna custodirli, curarli e farli crescere anche sfruttando la tradizionale capacità italiana di dare il meglio di sé in periodi di crisi”.

Prevede miglioramenti? 

Il mio è più un auspicio che una previsione. Scaturisce dalla volontà di far prevalere l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione che in questo momento in me prevale.

E cosa le dice? 

Temo che purtroppo anche quello del Covid si è rivelato uno choc non sufficientemente forte da far svegliare l’Italia rispetto, per esempio, alla necessità di mettere da parte il populismo. L’’Italiexit’ ancora non si è prodotta sul piano economico, su quello politico e socioculturale esiste già, Recovery plan o meno. Bisogna invertire la rotta o al prossimo choc il Paese si ritroverà fuori dall’Europa.

Fonte: Huffingtonpost

Link: https://m.huffingtonpost.it/entry/giuliano-da-empoli-covid-e-solo-un-acceleratore-litalia-e-gia-fuori-dalleuropa_it_5eff46a8c5b6ca97091daeba?w24&utm_hp_ref=it-homepage

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