Ecco i responsabili della crisi

Quando una parte della società civile si massifica, quando il cittadino-elettore si trasfigura in popolo-spettatore, allora le leadership diventano contendibili anche e soprattutto per quelli che gli americani chiamano “wannabe”, personaggi di piccolo cabotaggio dall’ego ipertrofico. Di Maio, avatar provvisorio della Casaleggio srl, e Salvini, già più astuto e comunque provvisto di una identità politica pur sgangherata, appartengono alla categoria, il primo più del secondo.

L’obiezione sarebbe semplice: anche Berlusconi e Renzi, con l’impostazione leaderistico-personalistica caratterizzante le rispettive esperienze politiche, hanno cavalcato “la democrazia del pubblico”, e quanto a massificazione dell’elettorato Berlusconi – precursore interessato della spettacolarizzazione della politica, signore di ben tre reti generaliste e di un impero editoriale – non ha eguali.

C’è del vero, ma visto dalla prospettiva sbagliata: il primo Berlusconi fu il manipolatore e non l’effetto collaterale dell’evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) della politica postmoderna, “manipolatore” nell’accezione avalutativa del termine, perché mise gli strumenti che aveva a disposizione al servizio di una piattaforma politico-ideologica precisa, che la si sposasse o meno; Renzi, interprete a sua volta di un “certo modo di fare politica”, ha adottato sì una cifra stilistica semplificatoria e talvolta perfino populista, ma – anche nel suo caso – al servizio di un progetto coerente e strutturato, funzionale (sintesi brutale) alla modernizzazione della sinistra, delle sue politiche economiche e dell’apparato politico-istituzionale del Paese.

Quando ci sono un’identità e un’offerta politica precise, ci si comporta con responsabilità sia all’interno degli spazi tipici del parlamentarismo maggioritario (la radicalizzazione di berlusconiani e antiberlusconiani fu l’esito infelice di una stagione breve ma inedita e innovativa di dialettica bipolare) sia nell’ambito di prassi “consociative” (il “patto della crostata” e il “patto del Nazareno” furono due tentativi, non riusciti – anche in seguito a cause esogene all’universo strettamente politico – ma comunque esperiti, di riscrivere assieme e responsabilmente le regole del gioco).

Quando, invece, l’offerta politica viene surrogata dall’offerta “emotiva”, per cui il fine degli attori partitici non è quello di canalizzare, filtrare e strutturare le istanze della società civile, ma fomentare e capitalizzare elettoralmente i peggio istinti della stessa, allora si assiste all’ascesa di leader schizofrenici sia all’interno di sistemi maggioritari (basti dare un’occhiata al portfolio dell’amministrazione Trump…) che perlopiù proporzionali.

La crisi politica, per la prima volta nella storia repubblicana a un passo dal degenerare in crisi istituzionale, è l’effetto diretto della centralità di due leader figli della degenerazione di cui si diceva, a capo del rispettivamente del partito e della coalizione che hanno ambedue conquistato la maggioranza relativa – in altri termini: il cerino era congiuntamente nelle loro mani. Non è (tanto e solo) una questione di inesperienza, ma di caratura e di bagaglio politico, bagaglio che, privo di “principi non-negoziabili” di natura ideologica, è pieno di veti meramente strumentali che ostacolano l’avvio di qualunque progetto.

Il continuo, strategico oscillare degli esponenti del M5S – incluso il “battitore libero” Alessandro Di Battista – tra animo velleitariamente “doroteo-istituzionalista” e animo movimentista (in questo secondo caso con esternazioni cripto-fasciste come quella del succitato battitore libero risalente a ieri) è la prova del nichilismo politico e perfino culturale che caratterizza questi neo-partiti e questi neo-leader, completamente estranei a quella fede laica nelle istituzioni liberal-democratiche che pur implicitamente animava anche l’agire politico dei loro antecessori “antisistema” – non ci sono più i partiti antisistema di una volta.

Se, in altri termini, sia per la natura del partito che capeggi (il M5S, ad esempio, è nato da un “vaffanculo”) che per tua propria incultura (per restare ai grillini, Di Maio non sembra avere alcun tipo di fascinazione filosofico-giuridica per il concetto di liberal-democrazia, di stato di diritto…) non elevi il buon funzionamento del sistema politico-istituzionale a priorità assoluta, allora assolutizzi la tattica, per cui baratti l’elezione di un tuo potenziale avversario interno a terza carica dello Stato con quella di una luogotenente del berlusconismo a seconda carica dello Stato, salvo poi porre un veto irremovibile su tutti gli altri berlusconiani semplicemente perché non vuoi essere inchiodato a una junior partnership di governo.

Chissà se la moral suasion di Sergio Mattarella, personalità del tutto antitetica ai leader sin qui descritti, riuscirà a normalizzare il Movimento Cinque Stelle – e pure la Lega, anche se va riconosciuto a Salvini un “quid” istituzionale in più rispetto al suo gemello populista – e innescare qualcosa.

Tutto, dunque nelle mani di Sergio Mattarella, la “fisarmonica” del Quirinale è oggi più che mai estesa.

Resta da capire, en passant, perché autorevoli giuristi, politologi e numerosi turisti del diritto costituzionale – tutti colpevoli di un uso politicizzato e tutt’altro che scientifico delle parole “eversione” e “sovversione”, brandite strumentalmente contro Renzi e non contro una società di consulenza digitale che ha privatizzato un terzo del parlamento e i cui colonnelli offendono pressoché quotidianamente le istituzioni con parole esse sì sovversive e messinscene ridicole – resta da capire perché il Pd avesse a loro dire il dovere di estinguersi nel tentativo (velleitario) di istituzionalizzare un partito di troll in giacca e cravatta.

Fonte: Democratica – di Alex Minissale

del 08 Maggio 2018

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